FILIPPO

di Vittorio Alfieri

FILIPPO di Vittorio Alfieri

Con Valerio Binasco, Sara Bertelà, Edoardo Ribatto,
Michele Di Mauro, Fabrizio Contri, Lorenzo Bartoli

Regia Valerio Binasco
Scene e luci Nicolas Bovey
Costumi Sandra Cardini
Musiche Andrea Chenna
Produzione Fondazione Teatro Stabile di Torino
in collaborazione con la città di Asti

 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

Filippo è un monarca degenerato in tiranno. Io non so nulla di monarchia, e dovrò fare affidamento all’immaginazione. Un’immaginazione per forza di cose ‘moderna’. Psicologica e anche favolistica. L’unica lettura che mi ha dato qualche immagine, forte come un ricordo, sulla vita di corte è ‘ il Negus’ di Kapucinskj . E poi le favole: quelle appunto di ‘c’era una volta un Re …’. E poi ovviamente Shakespeare. Ma ad Alfieri non importa nulla dei temi monarchici. Usa la favola tragica come travestimento per una ancor più terribile favola psicologica, che sta dentro ai rapporti famigliari. Alfieri (come anche i Tragici Greci) vede l’inferno dentro a questi rapporti.

Che cos’ha di assoluto il potere paterno? Un padre, senza neppure metterci troppo impegno, può divenire monarca e tiranno nella vita dei figli. Un figlio, può diventare uno schiavo del padre e restarlo per tutta la vita, anche da vecchio. Anche da orfano.

Questa storia di Re e Regine è la storia di persone incapaci di ribellarsi al potere dei padri. Il quadro di Goya con Saturno che divora suo figlio mi impressiona anche perché il corpo che divora non è quello di un bambino né di un adolescente(come in Rubens ), ma di un uomo. Un adulto. E il gigantesco padre divoratore è un vecchio con la barba bianca. Non esiste un ‘età in cui i padri tiranni siano sazi del corpo dei propri figli. Non esiste un’età in cui i figli siano al sicuro dalle fauci dei padri. Questo – anche- mi dice il quadro di Goya , e mi dice il Filippo.

Ma questi orrori non sono il solo tema dell’opera. C’è anche l’amore. Che in questa tragedia non può che esser visto come una malattia. La prima che se ne accorge è la povera Regina. La Regina in cuor suo farebbe a meno del regno e della virtù quando scopre di essere preda dell’amore. Un amore che non prevede alcuna felicità, ma solo martirio senza fine. Amore è un dio che non permette scelta. Ecco un altro tiranno, dunque. Eccola dunque schiava di un altro Re, dio, e padre. Secondo Socrate non è neppure un Dio , ma un Demone . Un Demone più potente degli dei. Forse un Demonio…

C’è qualcosa della ‘colpa’ di Mirra nella colpa di Isabella. Per la Regina il suo amore è qualcosa di abominevole. È uno degli amori ‘empi’ di Alfieri. L’amore come sentimento empio è uno dei temi preferiti di Alfieri. È la forma tragica e sublime di quello che nella letteratura drammatica borghese sarà il senso di colpa.

Inutile ricordare Phèdra ,di Racine. Per due motivi : uno : perchè tanto Phèdra viene in mente da sola; l’altro: perchè è un accostamento sbagliato. Infatti le eroine innamorate di abominevole amore in Alfieri hanno come massimo desiderio NON la soddisfazione del loro empio desiderio, ma di liberarsi da esso. Phèdra, invece, non vede l’ora di soddisfarlo.

La Regina vuole salvare almeno la sua recita, la sua dignità, rispettabilità. Qui c’è forse qualcosa di meschino? Ma chi sono io per giudicare ?

Considerazioni su Carlo. Egli si butta nel suo dramma senza alcun ritegno.

Fa pena. E non si vergogna di far pena. Ricorda certi malati.

Chi sono questi malati? Sono persone torturate dal male a tal punto che non hanno più alcun ritegno nel mostrare la loro condizione. Vi è una differenza enorme tra il comportamento di uno che si ‘arrende’ al male e di uno che è stato ‘sconfitto’ dal male. Carlo è sconfitto.

Carlo è ormai perduto nell’abisso della sua opposizione al padre. Viene a volte da pensare che tutto questo grande amore per Isabella sia inferiore all’odio che lui nutre per il padre tiranno. In fondo lui stesso lo racconta, quando enumera tutti i sacrifici morali e mentali che la sua coscienza ha fatto nel tempo per non opporsi mai in modo manifesto alle violenze del padre. Il padre lo odia. Questo è probabile, almeno.   Noi non metteremo in discussione questa verità. Anche se ci vien voglia di chiederci perché. Ma , dato che un perché soddisfacente non si troverà mai, dobbiamo ascrivere questa verità alle verità psichiche. Lo odia punto e basta. Lo odia perché è matto. E questo va anche bene per un tiranno. Mi viene in mente ora un altro libro che mi ha detto qualcosa sulla ‘psicologia’ di corte : ed è ‘Koba il terribile’ ,di Martin Amis, su Stalin.   Bisognerà ritornare a quelle letture che dicevano cose assai interessanti anche sui figli.

Ma anche Carlo odia Filippo, ormai. Ormai gli è possibile ammetterlo senza pudore. Ciò non basta, però, a togliere neppure un grammo al peso che il padre esercita su di lui. Anzi, sebbene sia arrivato ad ammettere il suo odio , e ad ammettere quindi che il padre non è un ‘giusto’, e che agisce in modo criminoso e scandaloso grazie al potere assoluto insieme a dei servi orrendi che sono i ministri del regno, non si accorge- mi pare- che c’è un’intelligenza rivoluzionaria e l’occasione di un disvelamento in questo suo odio per il padre. Un disvelamento ‘storico’: nessuna maschera del potere è più credibile : il Re è un criminale o un folle, e il suo potere si regge sulla corruzione di persone vili e orribili. Crolla sia il valore divino dell’impero, che quello della famiglia. In questo crollo ci sarebbe l’occasione per una rivelazione politica, ma Carlo non ce la fa. È troppo assordato dal suo odio e dal suo dolore, e c è posto solo per una malattia dell’anima. Tremenda. Carlo e Filippo sono due malati. Uno è la malattia dell’altro. Stanno male in modi diversi, ma entrambi non pensano ad altro : entrambi sono terminali. E questa tragedia è infatti il loro termine. O tu, o io. Come con le malattie mortali, appunto.

Isabella è presa in mezzo.   Non se ne rende conto. Vede solo la storia d’amore . L’infelice amore che le ha distrutto la vita.

Ci sono alcune considerazioni che mi frullano in testa ora che mi lascio frullare in testa le considerazioni preliminari. Una è legata all’opportunità stessa di lavorare su Alfieri oggi. Tale opportunità mi è data   dall’occasione di celebrare l’unità d’Italia, nel suo centocinquantesimo compleanno. Ci sono mille modi di fare qualcosa che abbia come riferimento l’unità nazionale, nonché i suoi temi principali e secondari. Ma sembra che l’unica via percorribile passi dal Risorgimento. Ripensare il Risorgimento vuol dire conoscerlo meglio, e quindi sentirlo come un’occasione meravigliosa e perduta. È il destino dell’Italia, questa dissipazione del futuro migliore. Il risorgimento è forse la dissipazione più imponente e dolorosa, perché conteneva una quantità di energie , di idee e di proposte di importanza travolgente. Ma non sono passate. Sembrava.., ma poi niente. Il solito popolo italiano delle plebi, alleato con i conservatori più orrendi, ha fatto il solito misero compromesso ispirato alla viltà e all’ignoranza. C’era l’occasione di fare dell’Italia una repubblica tra le più moderne e illuminate del mondo , e invece si è fatto un regno sabaudo tra i più meschini e squallidi del mondo, che ha aperto le porte al fascismo, e ha lasciato il paese in una condizione di degrado sociale e culturale che ancora oggi pare insanabile. Un’altra occasione perduta sarà poi la Resistenza, e soprattutto quei valori morali e civili ( e culturali) che si sono poi riverberati nel dopoguerra , fino a circa gli anni settanta.   Occasione perduta in partenza per via dell’assetto del mondo del dopoguerra, e della paura del comunismo sovietico . Ne è risultata un’altra egemonia ispirata allo squallore e alla meschinità, sostenuta dalle solite plebi : quella della democrazia cristiana. L’ultima occasione perduta – che non ha nessun apparente legame con le altre due perché non è stata il frutto di un’insurrezione , ma semplice messa in atto del Normale funzionamento della legalità -, è stata quella operata da una ristretta minoranza di giudici che ha distrutto in un paio d’anni tutto un sistema di potere vecchio ,corrotto e dannoso . Ma dinnanzi alla paura del nuovo, le solite plebi in pieno accordo coi soliti conservatori, e la solita stretta congiunturale internazionale questa volta manifestatasi con il volto di una nuova Santa Alleanza economica, e con la disgraziata presenza in campo di una nuova paura (quella dello straniero invasore per immigrazione), hanno impedito il passaggio a una fase nuova, e hanno optato per questa squallidissima e nefasta dittatura della piccola borghesia ignorante e televisiva che ci affligge da quasi un ventennio. INSOMMA OSSERVO CHE IL SAPER RISORGERE non è una qualità italiana. Passa da una morte all’altra, e si direbbe che lo fa per libera scelta, attraverso l’alleanza tra le classe sociale affaristico conservatrice e le plebi più ignoranti. Queste due classi sociali unite, in italia creano la maggioranza . Il Risorgimento (quello storico) è stato sempre espressione di minoranza. Una straordinaria minoranza illuminata, rivoluzionaria, e moderna.

Comunque : la qualità del risorgimento è l’insurrezione. La rivoluzione di un popolo contro il suo oppressore. Le rivolte in Italia, soprattutto quelle risorgimentali , sono sempre fallite. E quando non venivano ostacolati da potenze straniere, gli insorti italiani venivano trucidati e traditi dalla stessa popolazione. Mazzini diceva che il popolo andava educato e ha passato la vita a scrivere opuscoli che potessero circolare tra la gente per prepararla. I suoi scritti giravano il mondo. Scatenavano rivoluzioni ovunque. Ci sono Piazze Mazzini in tutte le nazioni che hanno conosciuto una dominazione e un Risorgimento, Americhe comprese. Ma in Italia i suoi scritti sembra non funzionassero, con la popolazione. La popolazione risultava sempre impreparata, indifferente, ostile. Ma impreparata a che? Rispondo, e finalmente, nel dar risposta a questa domanda, torno al tema dominante del Filippo di Alfieri . Impreparata a ‘lottare contro il padre’. L’italia è un paese fratricida. Conosce la guerra civile (tra fratelli), non la rivoluzione. Nemmeno Mussolini è stato abbattuto dalla rivoluzione. Il suo governo è caduto per una manovra politica interna al fascismo, con la partecipazione del re. La caduta del fascismo non è stata una rivolta del popolo, ma un episodio politico. Gli eroi della resistenza sono stati visti fino all’ultimo come dei guerriglieri, e il popolo non ha mai pensato di seguirli in massa, se non nelle ultime ore. C’è dunque qualcosa nel carattere italiano che non sa fare la rivoluzione. Anzi, che fugge a gambe levate nella direzione opposta non appena spirano venti rivoltosi. Pensiamo anche alle piccole rivolte ‘moderate’ che potrebbero essere scaturite negli ultimi anni, quando il popolo riceveva informazioni scandalose e ignobili sul comportamento dei politici e dei potenti dell’economia locale e mondiale. Niente. Nemmeno la memoria. Tutto nei ranghi. Al massimo ‘opposizione’, mai ribellione. Pensiamo ora alla Francia e al rinnovamento culturale mondiale che le sue VARIE rivoluzioni hanno portato nel mondo. Alla sua capacità di opporsi e di ‘fare popolo’, fino al punto di tagliare la testa al re. E di farlo senza ideologie di sostegno (marxismo…eccetera) ma con la sola forza devastante dell’indignazione rivoluzionaria contro l’ingiustizia dei re.

Il Padre. L’italia ha un problema con la famiglia.

Ha un problema con la famiglia esteso a livello nazionale. Ha un problema psicologico con la madre e col padre. Essi sono l’autorità. E quindi l’autorità è – per transfert – anche un poco madre e padre. Gli italiani sanno essere martiri, quasi mai eroi. Sanno farsi massacrare dai padri, mai massacrarli. La rivoluzione è il massacro del padre. Persino quello che sta Nei Cieli. L’italia poi, non è nemmeno una Patria per molti, ma una Matria. L’unica idea comune di ‘identità nazionale’ è data non a caso da abitudini alimentari, da furberie viste con indulgenza , da una ‘simpatia’ narcisistica e generalizzata. Tutta roba per mamme.

   A volte mi hanno chiesto (alcuni attori) come mai Carlo subisca tutto questo, perché non si ribelli al padre, perché non fugga. Resto un po’ interdetto davanti a queste domande, così come lo restavo ai tempi di Amleto, quando mi chiedevano perché Amleto non fa una strage subito, appena incontrato il fantasma, ma aspetti invece altri quattro lunghi atti per decidersi. Che razza di domande…   ma che semplici risposte: perché andarsene è difficile. Perché uccidere è difficile, perché uccidersi è difficile.   Al termine di una recita di Amleto, a Palermo, uno spettatore, un ragazzo, venne in camerino da me e mi disse: ‘ La ringrazio perché ho capito finalmente perché Amleto non uccide subito suoi zio’ . E io – che non lo sapevo – gli chiesi : ‘ Perché non lo fa? ‘   e lui mi rispose con commossa semplicità: ‘ Perché uccidere qualcuno è difficile. È terribile.’

Fare le rivoluzioni è difficile. È terribile uccidere il padre. Uccidere Dio e la legge.
E poi : come potrebbe fuggire Carlo, il figlio di un Re?
E chi di noi non è figlio di un Re?

E poi: si può forse fuggire dalla persecuzione di un padre?   (in realtà questo è il tema che mi sta più a cuore sviscerare). No. Non si può. Sei incatenato a lui e al suo delirante imperio sulla tua anima. È una malattia da cui non ci si salva con la fuga. O forse sì, ci si salverebbe, ma uno dei sintomi è che la fuga non viene neppure in mente.” (Valerio Binasco)

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Locandina

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DEBUTTO: Teatro Carignano, Torino / 16-28 Novembre 2010

Anno
2010

Produzione
Fondazione Teatro Stabile di Torino