Alcuni pensieri per prenderla larga

L’idea che sta alla base de La Cucina è bella e molto seducente, ma ogni volta che cerco di ‘entrare’ in questo testo, sento un disagio.  Come se, in realtà, il testo fosse scritto in modo acerbo, non approfondito.
La sensazione è che Wesker si sia concentrato solo su due cose: la cucina come metafora  della vita di fabbrica, alienante e spietata (che è l’idea metaforica alla base del testo) e la rappresentazione scenica del lavoro dei cuochi (ovvero l’idea teatrale), e che solo questa gli piacesse in modo particolare. La sua intuizione, in effetti, è molto buona, le scene di gran movimento lavorativo, se ben coordinate dal regista ed eseguite con abilità dagli attori, sono certo di grande efficacia. Inoltre è probabile che ai tempi della prima stesura del copione, tali scene costituissero una novità.
Tuttavia sembra che l’ispirazione dell’autore si sia fermata qui. Forse ha avuto timore che la sua idea risultasse troppo ristretta, troppo sperimentale… troppo documentaristica. E allora ha usato la tecnica tradizionale di infilare dentro al documentario un po’ di fiction.
Non si è fidato, insomma, dell’insegnamento di Zavattini (insegnamento che però non seguiva del tutto nemmeno Zavattini stesso) in base al quale bisognava fidarsi del realismo – meglio ancora: della ‘realtà’ – delle cose,  senza cedere alla tentazione di giustificarsi con interventi narrativi  esterni:
” Grazie alla lezione del neorealismo oggi so che se voglio raccontare uno sciopero – diceva – basterà che io vada a filmare uno sciopero. La realtà mi fornirà centinaia di spunti per fare del mio filmato un film, e delle crude immagini un racconto.  Al contrario, in passato,  avrei dovuto scrivere una storia romantica da mettere ‘dentro’ allo sciopero, e fare di essa la trama principale, con lo scopo di rendere narrativamente plausibile lo sciopero stesso. Se non che, facendo in questo modo,  la natura del film sarebbe mutata irreparabilmente, e quello che avrei voluto fosse un film su uno sciopero , finiva col diventare una storia che ha come sfondo uno sciopero. L’idea principale così diventa ancor meno di un’idea secondaria, diventa uno sfondo.”
Ecco qui le ragioni del mio disagio.  Il protagonista reale, cioè la cucina, diventa solo lo sfondo tematico di una storia romantica con dei protagonisti strumentali.

Allora faccio un pensiero all’incontrario, e mi domando: se elimino ‘lo sfondo’ costituito dal lavoro della cucina con tutto il suo brulicare di situazioni e personaggi, ed isolo la storia principale,cosa resta? Beh, vedo che Wesker ha puntato tutte le sue carte sul plot amoroso di Peter e Monique.
Quindi ora prendo questo appunto :secondo l’autore la storia principale è quella di Peter e Monique.
Metto da parte un attimo l’appunto (ci tornerò quando sarà il momento).

Prima devo analizzare la struttura dialogica de La Cucina.
Essa è costituita da
1) dialoghi realistico-ambientali
2) storie secondarie
3) storia principale
I primi due sono a volte interdipendenti. Cioè: dai dialoghi ambientali, nascono le storie secondarie. Wesker ne sottolinea alcune. Diciamo poi che dissemina delle tracce qua e là per dar modo a qualche regista volonteroso di svilupparne altre.
dialoghi realistico-ambientali:
sono moltissimi, e costituiscono credo il 60% circa del testo. essi sono il tentativo di Wesker di catturare la quotidianità delle conversazioni qualunque dei lavoratori di una cucina. E’ evidente che sono la parte più debole del testo, per il semplice fatto che lo slang quotidiano invecchia presto, così come appartiene a una vecchia scuola di scrittura il fatto che i dialoghi -anche quelli meno significativi – dovessero sempre essere coerenti col ‘carattere’ dei personaggi. In questo modo i dialoghi realistico-ambientali risultano spesso didascalici e manierati.
Questa frase, se tiro le somme in modo statistico, mi dice che il 60% del testo è datato e didascalico. Ma è un problema dal quale si può uscire (prendendosi qualche nobile rischio , tipo quello di fare delle improvvisazioni, o di chiedere agli attori – come faceva Altman – di  reinventarsi la conversazione spicciola dei loro personaggi). Bisogna infatti riconoscere che questa parte del dialogo, anche se percentualmente rilevante, è invece  irrilevante per lo sviluppo della storia principale, delle storie secondarie, e dell’idea metaforica di base. Basterà adattarlo a un contesto più moderno, a una visione rinnovata dell’intera commedia, e alla particolare natura degli attori.
Sulla funzione scenica dei dialoghi realistico – ambientali grava però un peso in più: per Wesker essi non sono solo ‘la voce dello sfondo’, il suono umano della macchina, ma devono assolvere anche a un ‘altra funzione, che corrisponde a darci delle informazioni sui caratteri, sulle tipologie, e sull’estrazione  socio-culturale dei personaggi.
Ed è proprio per assolvere a questo compito che l’autore rischia più spesso di naufragare nel didascalico. Personalmente credo che questo compito inerente la tipicità dei personaggi spetti più agli attori e al regista, che agli autori. La scrittura scenica assolverà facilmente a questo compito di illustrare le ‘tipologie’.
Fiducioso di questo,  posso dare ai personaggi tutta la libertà di contraddirsi, di essere ondivaghi, sorprendenti, o silenziosi.
Bisogna liberare i dialoghi realistico-ambientali dalla prigionia della coerenza. Renderli liberamente frammentari, assurdi, inutili, a seconda delle varie situazioni. Dobbiamo quindi deresponsabilizzarli, dal punto di vista della descrizione ambientale e umana.

Credo inoltre che Wesker puntasse su questo tipo di dialoghi per un altro motivo: sorprendere il pubblico benpensante mostrandogli la quantità di machismo, di volgarità gratuita e di tensione nervosa che si nasconde nel dietro le quinte di un ristorante elegante. Wesker toglie la maschera all’idea comune di Ristorante, e ci dice che dietro ai sorrisi del maître, e al buon gusto degli arredi, c’è una realtà faticosa, brutta, e violenta. In tutto simile al mondo del lavoro e del proletariato. In una recensione degli anni sessanta Wesker viene definito ‘poeta del popolo’ .  Non so se lo fosse davvero, ma diciamo che si era identificato bene in quel ruolo. Questo a scapito, purtroppo, della qualità dei suoi dialoghi.

Ma, nonostante l’ispirazione da Poeta del popolo, La Cucina è un testo virtuosistico.
Lo è in modo molto molto superiore a quanto sia un testo ideologico. Ed è proprio il suo virtuosismo che attrae la mia curiosità registica , così come è il virtuosismo che ha dato a La Cucina una solida credibilità teatrale nel corso dei decenni,  via via che ogni pretesto ideologico riduceva progressivamente la sua importanza, nei teatri, fino a sparire del tutto.
Nella Cucina vedo due virtuosismi, di tipo opposto: il più evidente è quello che descrive un numero incredibilmente alto di cuochi al lavoro, in un parossismo di accelerazione e di geometrica confusione: è un virtuosismo istrionico di grande potenza.
Il secondo virtuosismo, come dicevo di natura opposta, è – o dovrebbe essere – proprio quello del dialogo realistico-ambientale.  E’ un virtuosismo anti-istrionico, molto discreto, soft, governato da leggi altrettanto musicali di quello istrionico di cui sopra, ma modulato secondo leggi compositive che hanno forse più a che fare con la recitazione che con la scrittura. Per dare l’idea di una realtà indifferente alla rappresentazione, con persone che parlano ma non dicono niente di che, magari totalmente di spalle, o accavallati gli uni agli altri, ecc, occorre una coordinazione virtuosistica: un enorme controllo della recitazione e della composizione collettiva, sia da parte del regista , che da parte di ogni singolo attore.
Il primo tipo di virtuosismo non è sfuggito a Wesker, e lo ha reso con grande abilità.
Il secondo, invece, direi che gli è sfuggito.  Gli è sfuggito perché non lo conosceva. Conosceva al suo posto le regole del teatro naturalistico, e ha usato quelle.  Questa parte del suo lavoro, secondo me, va corretta, adattata o riscritta.

Se si stabilisse una gerarchia di importanza dei dialoghi, direi che a un gradino superiore  rispetto a quelli fin qui analizzati, ovvero quelli naturalistico-ambientali, vengono quelli che servono a creare le storie secondarie: Eccone alcune.
La storia di Paul, che è stato lasciato dalla moglie, la quale era – a detta di lui- una persona problematica e insopportabile, e lo tradiva. La donna se ne è andata e si è portata via il bambino. Lui prova odio per lei, ma si capisce che è molto segnato dall’ evento traumatico della separazione, e si sente un fallito.
La storia di Violet, che era abituata a lavorare in un posto molto più tranquillo e rispettoso, e per via di qualche problema di cui non sappiamo niente, ma che facilmente ha a che fare con la sua disoccupazione, si ritrova a lavorare qui , nella Cucina, e viene sopraffatta dalla fatica e dalla confusione, farà molti errori, fino a che sarà costretta a sbroccare e a ribellarsi. ( e forse a trovare se stessa )
La storia di Daphne e Nicholas: lui è un extracomunitario, lei è Inglese (nella nostra versione : Italiana). Si sono sposati, ma non vanno d’accordo. Lei è estremamente insoddisfatta di lui, ed è anche gelosa. Lui ce la mette tutta, ma sul lavoro è sempre ubriaco e non riesce a controllarsi. Litigano davanti a tutti senza ritegno, il loro menage è di quelli che qualsiasi cosa faccia uno dei due per migliorare la situazione, l’altro si sente minacciato e offeso.
La storia di Jackie (che nella mia versione è Cynthia), di cui sappiamo solo che c’è da qualche parte un marito che non le paga gli alimenti per i figli, e lei vuole farlo minacciare dai suoi fratelli. Molly è una sua amica, e in una sola battuta ci dice che lei lo farebbe picchiare, manifestando un suo odio – non detto – per gli uomini che si comportano da pusillanimi.
La storia di Winnie, che ha preso una forte pillola abortiva, e sviene durante il sevizio.
La storia di Hans e Cynthia, che è solo una storia di corteggiamento. Un amore sul nascere, forse. Un fiore sentimentale.
La storia di Kevin, un ingenuo neo assunto, che viene buttato nella mischia e va in panico. Attraverso di lui vediamo un luogo cinico con occhi ingenui.
La storia di Gaston, che odia Peter e vuole vendicarsi di un’offesa subita.
La storia di Leo, lo chef, un uomo stanco e scoppiato che sogna di andare in pensione al più presto, e a causa di questo se ne frega di tutto e si lascia andare.
La storia del Barbone, che entra e racconta qualcosa di sconclusionato su di sé, e chiede in elemosina qualcosa da mangiare, e mette involontariamente nei guai Peter, che si identifica un po’ con lui.
E poi altre, che adesso non ricordo.

Queste storie secondarie si suddividono in due specie a seconda se riguardano l’interno o l’esterno della cucina, ovvero vicende che hanno a che fare con la vita lavorativa, oppure vicende che hanno a che fare col mondo esterno.
Certi personaggi sono tormentati da temi inerenti i loro colleghi, la loro propria alienazione  lavorativa, o i loro appetiti erotici nel luogo di lavoro; altri sono tormentati da problemi che esistono ‘fuori’ dalla cucina. Questi ultimi si direbbe che sono talmente opprimenti (Paul, Winnie, il Barbone, Jackie…) che trovano una specie di tregua e di solidarietà proprio nella convivenza coatta con i colleghi nel luogo di lavoro.
I problemi degli altri invece, quelli Dentro, si direbbe che siano frutto dell’ esasperazione lavorativa, e nascono dal fatto che per certi personaggi la Cucina è un luogo di punizione.
Una terza specie, intermedia, è quella dei problemi esistenti Fuori che però si riverberano anche Dentro : per esempio  Nicholas e Daphne, che hanno un orribile menage famigliare, e in più sono anche colleghi (Stessa cosa si potrebbe dire a proposito della storia principale di Peter e Monique).

Sviluppo delle storie secondarie
E’ interessante osservare che nessuna di queste storie secondarie ha uno sviluppo . Alcune sono considerate dall’autore più meritevoli di attenzione (tipo quella di Paul,o  di Daphne-Nicholas, per es.). Altre sono diventate organiche alla drammaturgia virtuosistica: le difficoltà di Kevin e di Violet rallentano e innervosiscono la macchina umana…, altro esempio.
Ma per la maggior parte delle altre storie l’autore non desidera che ci sia più di un rapido accenno. Battute di un paio di righe, e via.  Mi sembra un’idea molto buona.
Tuttavia occorre che in fase di preparazione,  gli attori approfondiscano attentamente le storie dei loro personaggi. Anche quelli a cui tocca in sorte una storia secondaria espressa appena in un paio di battute, devono  portare il carico emotivo di quella loro storia per tutto lo spettacolo. Le storie secondarie sono un modo per dire : ognuno ha la sua croce. Ognuno ha un problema che lo affligge in modo ossessivo.
Dicevo che nessuna storia secondaria ha uno sviluppo: questo denota la volontà da parte di Wesker di rappresentare le tribolazioni della gente comune come qualcosa di cronico, come una condanna alla fatica e al disagio, senza la consolazione – mai – di un esito romantico o romanzesco. Tutte le storie alle quali assisteremo durante lo svolgersi della commedia, restano sospese.
Anche i rapporti tra le persone fanno un lungo percorso di latenza, sollecitazione, rivelazione , che non porta a niente: ci si ferma al massimo, alla rivelazione .
Non c’è né condivisione né riappacificazione, né cambiamento. Una storia che non prevede il cambiamento del suo personaggio, non è esattamente una storia. E’ una premessa. Le premesse sono cariche di tensione. Questa tensione resta dentro ai personaggi, e non ha alcuna speranza di sciogliersi dentro a un racconto : il finale strappato a forza a causa della  follìa di Peter impedisce qualsiasi sviluppo dei rapporti, casomai ce ne fosse una possibilità .  Ognuno resta com’è e dov’è nella scacchiera della vita.
Molto interessante, e concettualmente fondato.
Tuttavia c’è da aggiungere qualcosa di molto importante che andrà approfondito nel lavoro scenico: ogni storia (secondaria o no) è interessante per il pubblico  se ha uno sviluppo e approda a una modificazione della linea esistenziale dei personaggi.
Ogni storia è un destino (che si compie, o che si è già compiuto, o che intuiamo si compirà). Il destino è la svolta a cui sono attesi gli esseri umani. Tutti. Le storie hanno un fascino irresistibile sugli spettatori, perché alludono implicitamente  al destino di ciascuno. Perché una storia funzioni ( cioè attiri l’attenzione e generi emozioni ), deve avere quindi in sé le caratteristiche di una storia che va verso un destino e un cambiamento (non importa se verso il bene o verso il male).
Wesker fa bene a tagliar corto, e a chiudere la narrazione prima che vada verso uno sviluppo e verso la svolta del cambiamento. Fa come Peter, stacca la spina.
Ma io non posso fare come lui, se non voglio perdere l’attenzione del pubblico.
Devo fare in modo che ogni storia secondaria possa ‘far vedere’ in controluce , grazie alla recitazione e alla regia, ogni suo  possibile sviluppo, e ogni sua possibile risoluzione . Occorre dare al pubblico degli elementi per fargli immaginare quella parte di racconto che Wesker interrompe.
I personaggi della commedia sono abbastanza inconsapevoli degli sviluppi e della svolta che li attende. Ma questa inconsapevolezza (così umana) non deve riguardare il pubblico , il quale deve al contrario provare l’emozione di sapere (intuire) il destino di un personaggio che è ancora troppo preso dalla sua vita  per averne coscienza.  E’ troppo preso da troppe cose (per esempio lavorare), per intravedere quale sia la svolta che gli spetta. Ma lo spettatore deve essere messo da noi in condizione di intuire sia gli sviluppi che il destino finale di ogni storia secondaria, anche quelle scritte in una sola battuta.
E’ una faccenda molto delicata ,legata alla regia e alla recitazione.

La storia principale
Per fare da collante alla sua idea di base, Wesker opta per una storia d’amore.
Ecco la storia di Peter e Monique, raccontata  come se fosse una storia a sé: lei è sposata con un brav’uomo di nome Monty, piuttosto anziano. Lui è un tedesco emigrato, dal carattere insopportabile, ma dotato di un’energia tanto  trascinante quanto disperata. Il sentimento che si nota di più in lei è una compassionevole, materna tolleranza per Peter. Mentre in lui, il sentimento dominante è la gelosia, dovuta a una natura passionale e possessiva.
Lei è indecisa sul portare avanti la loro relazione, ed è piena di sensi di colpa verso suo marito. Questa sua indecisione fa impazzire Peter, che forza continuamente la mano e la provoca incessantemente. Lui è per il fuoco romantico: vorrebbe che lei lasciasse il marito e si mettesse con lui. Vuole anche un figlio. Anzi, di sicuro crede che se lei aspettasse un figlio da lui, non avrebbe più dubbi e lascerebbe il marito. E’ di sicuro per questo che lui la mette incinta, ogni tanto. E lei regolarmente abortisce.
Questo manda in bestia Peter. E deprime lei, che vorrebbe tutto tranne una storia così travagliata. Lei ha bisogno di vivere in un modo decente. E’ disposta a ridimensionare i suoi sentimenti, per ottenere questo.
Peter, è esattamente il suo opposto: non ragiona e va dritto verso il suo sogno possessivo e romantico.  Quando lei gli fa capire che non è la fuga romantica il suo obiettivo, lui impazzisce di rabbia, si sente tradito. Lei è di nuovo incinta:lui vuole il bambino , ma Lei gli dice che abortirà anche questa volta. Lui insiste. Lei non vuole nemmeno parlarne, e infatti parla d’altro. Lui si esaspera . Lei si sottrae. Lui non molla. A un certo punto Lei, per troncare,  gli da una notizia : lei e Monty comprano una casa nuova.  (la ‘casa’ come stabilità, tutto il contrario della ‘fuga’)
Questa notizia manda Peter nel caos mentale.  Non parla più. E’ inerte.  Pochi minuti dopo un attacco di iraconda follia, causato da un futile motivo sul luogo di lavoro, e distrugge tutto. Fa la Grande Cazzata. Immaginiamo che la sua vita sia rovinata.
Wesker non indugia sull’uscita di scena di Peter, non ci dice nulla, ma sembrerebbe che sia un’uscita di scena metaforica, e definitiva. Esce da tutto. Anche dalla vita di Monique.

Impressioni personali sulla storia principale
Come lettore, ho avuto spesso l’impressione che Monique si libererebbe più volentieri di Peter che di Monty. Ma Peter ha un’energia nera e incontenibile, e agisce come un amante-persecutore, è difficile per Monique resistergli.
La loro storia sarebbe finita da tempo, se non fossero costretti a vedersi ogni giorno, e a lavorare fianco a fianco. (E qui entra in campo La Cucina, come sfondo narrativo…)
IL difetto di Peter nella vita di coppia è che è geloso, il suo difetto nella vita sociale è che è depresso e attaccabrighe. Si vede abbastanza chiaramente che sfoga nell’attaccar briga la violenza repressa che gli nasce dalla gelosia e dalla precarietà del suo rapporto con Monique. Ma proprio “grazie” alla sua natura di attaccabrighe, si instaura un rapporto vizioso, una specie di doppio legame, che salda ancor più queste due anime poco gemelle. Ecco come avviene : Lei non sopporta il suo carattere, e lo evita. E allora lui la ama ancora di più perché teme di perderla, e diventa sempre più possessivo. A quel punto lei lo insulta e gli gira le spalle. Lui perde la testa e si comporta da bambino disadattato, provocando risse e guai con il primo che gli passa sotto il naso, e mettendosi in pericolo. A quel punto lei prova compassione materna per lui, e le si riaccende la tenerezza. Lui a quel punto crede di essere l’uomo più felice del mondo e le chiede di fare un figlio. Lei si deprime e fa la ritrosa. Lui si ingelosisce e la maltratta. Lei non sopporta il suo carattere eccetera.  un giro vizioso. no exit.

L’idea che ci suggerisce Wesker, è che Monique, dovendo scegliere, sceglierebbe il tranquillo e forse paterno marito, piuttosto che il focoso ma infantile amante.
La sua scelta nasce dal ragionamento. Le scelte di Peter nascono dall’ossessione, e dalla totale mancanza di ragionamento.

Viene da chiedersi perché lei stia con lui. E la risposta è di nuovo: perché lo vede ogni giorno, e non sa sottrarsi al suo impeto . Perché Monique, che ci appare una donna forte e intelligente, non è capace di resistere alla possessività di Peter?  wesker non ci suggerisce niente di valido. solo qualche vaga – e poco efficace – allusione alla natura pacifica e paziente della donna.  ma sono parole superficiali, che non portano da nessuna parte.
Forse Wesker non era interessato a Monique, non almeno tanto quanto lo interessasse Peter, e infatti Monique è meno espressa, meno ‘servita’ dalle battute. Ebbene: questa è una fortuna. Infatti Monique risulta, nella sua incompiutezza, meno didascalica e più misteriosa.
Monique non è una donna pacifica e paziente: è una donna confusa e disperata, che si sente una merda, nonostante abbia abbastanza personalità e autodisciplina  da imporsi di non soccombere alla sua bassa autostima. in pubblico sa presentare la sua immagine di donna forte ed efficiente, diciamo che è la sua maschera sociale, quello che vorrebbe essere, e che gli altri credono che sia. Dentro di sé è invece una donna confusa e senza speranza, che vorrebbe tanto scappare via. c’è in lei un forte carico di senso di colpa, sia verso il marito che verso l’amante. Infatti su di lei c’è il peso di DUE  relazioni insopportabili : quella con il marito noioso da una parte, e quella con l’amante eccessivo e violento dall’altra.  Credo che lei non ami nessuno dei due, ma abbia pietà di entrambi. sotto sotto li odia entrambi. è per questo che ne ha pietà, per difenderli dal suo odio. E’ una che si fa carico volentieri dei fardelli che la vita le mette dinnanzi. E’ tipologicamente una madre. Una madre che – dovendo rinunciare ad essere se stessa – non vuole figli. Qualcuno potrebbe perfino dire melodrammaticamente che il figlio di Monique è Peter.

Wesker adorava Peter. Ma non credo che il suo affetto gli abbia reso un buon servizio.
Al pari di una Monique, anche Wesker si fa prendere dal senso materno e dalla compassionevole indulgenza per il suo personaggio, e ci mostra le debolezze di Peter come se fossero frutto di grande sensibilità , e le sue banalità vengono scambiate per fascinose manifestazioni di una personalità fuori del comune. L’autore è innamorato, mi pare , di due personaggi: il primo è Peter, il secondo è Paul. Paul ha il monologo più ideologicamente corretto, ed è uno dei pochi non brutali, nella cucina, sembra dotato di un minimo di introspezione, e preferisce la pace alle risse. Soffre per una moglie che lo ha tradito e abbandonato, ed è il tipo di ‘eroe’ virile, buono e onesto. A lui Wesker da la fascetta con la stella di david, e ci dice che è ebreo, l’unico della Cucina.
La Cucina è un testo scritto e pensato nel dopoguerra, e quindi la contrapposizione tedeschi-ebrei doveva essere molto affascinante, in un testo teatrale dove la base drammaturgica è costituita da un’idea di convivenza forzata. I personaggi seri e riflessivi forse gli venivano meglio, ed ecco che  il suo ebreo Paul è tutto sommato un personaggio meglio riuscito del suo tedesco Peter.
Il ricordo bruciante della guerra e della shoa deve essere ancora ben visibile nei personaggi. Quando Paul dice a Peter: “non mi piaci”, gli dice qualcosa di più, ovviamente. E Peter lo capisce al volo.  I tedeschi nel primo dopoguerra credo che si sentissero un po’ come i paria della civiltà occidentale . L’enorme recupero socio-culturale,  politico ed economico che hanno compiuto in pochi decenni , credo che sia dovuto a quella sana vergogna, e al desiderio collettivo di liberarsi del peso insopportabile del passato, perseguendo giorno per giorno un presente virtuoso e luminoso. ((((direi che ce l’hanno fatta.  A differenza degli Italiani che hanno preferito fare come se niente fosse, e addossare tutte le colpe del passato a quella che di colpo era divenuta la ‘minoranza fascista’.  L’autoindulgenza è un tratto infantile dell’anima, che dà un certo sollievo a breve termine (i bambini conoscono solo il breve termine), ma è disastrosa se si pensa agli effetti nel futuro. E’ il difetto fatale del nostro popolo. L’infantilismo italico dinnanzi a parole come responsabilità, o tragedia, induce il popolo a nascondersi sotto il letto)))).
C’è dunque una vergogna e una rabbia speciale dentro l’anima di Peter.
Wesker , assecondando il suo gusto descrittivo, risolve il problema della coscienza storica  di Peter facendogli fare la scena dell’arco di trionfo. Non è una bella soluzione scenica, purtroppo.

Peter è un ragazzo ombroso, molto esuberante e molto arrabbiato.
La sua rabbia e la sua esuberanza provengono da un ‘buio’ dentro di lui, di cui non sapremo niente, ma che potremo intuire abbia a che fare col suo essere tedesco, e sentirsi quindi sporco dentro l’anima per via del nazismo.

Wesker però non fa di lui un malinconico ‘reduce’. Alla sua rabbia dà invece i connotati più convenzionali dei giovani inquieti che si affacciavano trionfalmente alla ribalta in quegli anni : gli arrabbiati inglesi,in teatro, e i Jimmy Dean americani al cinema.
Questa confusione di generi (reduci e arrabbiati, working class e psicologie borghesi contorte) non credo che sia stata propizia per il personaggio.  Il quale alla fine risulta più funzionale che misterioso, più astratto che inafferrabile. Viene da chiedersi il perché. Una risposta, ce l’avrei : ed è che la storia di Peter è solo una funzione drammaturgica, è un espediente per giustificare il realismo della Cucina.
Se vogliamo salvarlo, dobbiamo capire bene i ‘temi’ di Peter, e di fare un po’ d’ordine.
La sua macchia e il suo buio interiore appartengono al suo passato di tedesco, di giovane soldato sconfitto due volte : dalla guerra e dalla pace. L’orgoglio germanico divenuto vergogna senza fine. Quella di Peter è la prima generazione  su cui ricade il peso di un futuro nella vergogna. Ce n’è abbastanza per fare di questo pensiero un pensiero fisso del personaggio. La sua rabbia invece  proviene, secondo l’autore, da zone diverse.
E’ una rabbia sociale, dovuta alla scarsa umanità del suo luogo di lavoro, e alla sua natura ribelle nei confronti di qualsiasi autorità. E’ un ribelle, non un rivoluzionario. La fine della guerra e la fine dei valori che la guerra ha travolto, hanno fatto di lui un ragazzo che non crede più in niente, che vede l’assurdo in ogni cosa, e non ha speranza.  Questo atteggiamento culturale (subculturale,  direbbe Greil Marcus) ha avuto una lunga fortuna nello show business, almeno fino al “No Future” dei sex Pistols.
Gli arrabbiati si dividono in due generi: quelli americani, raccontati da eroi della rabbia come Jimmy Dean e Elia Kazan, che hanno un enorme buio dentro l’anima che non proviene da cause sociali, bensì famigliari. E’ una rabbia che parte da una ferita mai rimarginata di origine paterna o materna, che poi dilaga nella società, in modo autodistruttivo e privo di senso ideologico, se non per via di un vago colore ‘antiborghese’.
Ma l’antiborghesia di Kazan o Dean proviene dal desiderio di punire i padri. Di sporcarli, di smascherarne la falsità e la crudeltà. Viene da qualcosa di edipico.
Il secondo genere sono gli arrabbiati inglesi, carichi di un odio non edipico ma politico. Sono persone ferite dalla società, sono persone che non vogliono vivere nel modo che la società ha predisposto per loro. Sono persone che soffrono perché hanno riconosciuto l’assurdo della vita, e di quell’assurdo si sono fatti i portavoce. Come il senso dell’assurdo e la rivolta siano connessi , è stato oggetto di studio da parte di Camus.
La linea che collega Peter agli arrabbiati, passa dalle parti dei ribelli sociali, piuttosto che dalle parti di Kazan o di Tennesee Williams. Se lasciata andare al suo estremo, andrebbe più volentieri dalle parti dei Sex Pistols, piuttosto che da quelle di James Dean.
Considerato in questo modo, possiamo dire che Peter è un precursore.
Ai tempi di Wesker non credo infatti che ci fosse la possibilità di essere dei ribelli fine a sé stessi, senza un vero costrutto politico in testa.

Tema dell’aborto  (come argomento sociale e simbolo)
Non so che peso abbia nella biografia dell’autore, o quanto sia presente nella sua opera, ma qui è un tema abbastanza insistito.
Winnie, una cameriera, è costretta a prendere delle pillole abortive illegali, e si si sente male durante il servizio. Il suo svenimento fa da controcanto all’unica scena affettuosa tra Peter e Monique: scena che frana in un ennesimo conflitto, più grave del solito, proprio perché Monique vuole abortire e Peter vuole tenere il bambino.
Sembra questa la goccia che fa traboccare il vaso della violenza distruttiva di Peter.
Poche scene prima Wesker aveva trovato il modo di informarci che Monique ha già abortito un paio di volte.
E poche scene dopo impegna tre o quattro personaggi a fare dei pettegolezzi sulla consuetudine molto diffusa tra le femmine della Cucina, di ricorrere all’aborto.
Di sicuro è un tema che negli anni dell’esordio della commedia era di grande attualità, e portarlo dentro a uno spettacolo era garanzia di provocazione e  di scandalo.
Oggi, pur non essendo le cose inerenti l’aborto migliorate in modo apprezzabile, il tema appare disinnescato, e il suo apporto ‘energetico’ dentro a una commedia, appare assai sfocato. Non c’è un motivo valido : sono gli alti e bassi dell’attualità.
Questo è per dire che: oggi il ‘tema’ non basta.  Non ha più la forza necessaria per far succedere qualcosa nella messa in scena. Deve passare attraverso il conflitto dei personaggi, e non limitarsi ad essere un eco dei conflitti presenti nella società.
WEsker sembra essersene accorto, visto che decenni dopo, in occasione di una revisione del testo, aggiunge un ‘sogno’ di Monique, che ci dice quel che lei prova nell’imminenza del suo terzo aborto.   Il tentativo di Wesker, a mio avviso, è assai maldestro :   mette insieme obiettivi e stili diversi, forse opposti, col risultato  di sfocare sempre più l’immagine o il concetto che vorrebbe mettere a fuoco.
Il sogno di Monique infatti viene ‘calato’ nel testo senza che ci sia nessuna possibilità concreta di farlo esistere in modo verosimile. Immagino che la cornice tematica dei ‘sogni’ , che abbiamo visto nell’Interludio, abbia suggerito all’autore che dare anche a Monique un suo sogno poteva essere un buon ‘pendant’. Ma questo espediente è fuori contesto rispetto alla scena in cui è stato inserito, e inoltre  è difficile recuperare così tanta interiorità psicologica, dopo che si è vista quasi per intero una commedia che vuole ( o vorrebbe ) essere un documentario oggettivo, che registra azioni e dialoghi , senza mai immergersi negli stati d’animo. Abbiamo visto scene panoramiche di insieme, e poi qualche piano ravvicinato di scene a due o tre.  Al massimo abbiamo potuto fare alcuni dialoghi dotati di una certa intimità, ma sempre rapidi, e a figura intera.  E adesso arriva questo straziante primo piano. è ovvio che si rivela un espediente. infatti anche l’autore, per giustificarlo, si inventa un ardito effetto registico, e chiede allo spettacolo di fermarsi, addirittura di abbassare le luci, e agli interpreti di raccogliersi come in un tableau, mentre Monique, in primo piano, fa il suo monologo. Il tempo si ferma. Poi, alla fine del monologo,  tutto torna come prima.
L’idea è maldestra, certo, ma se l’autore impegna tanta energia creativa per dare importanza a questo tema, significa che dovremo fare qualcosa per portarlo alla massima evidenza , magari senza ricorrere agli stessi espedienti didascalici.
è un tema delicato, di cui dobbiamo prenderci cura in qualche modo.
innanzitutto dobbiamo chiederci ‘cosa porta con sé’ questo tema, al di là della sua oggettiva attualità politica.  cosa evoca nello spettatore, a livello dei suoi istinti elementari, e dei suoi simboli: Madre che divora i suoi figli in grembo..
Figli espulsi dalla madre.  Madri che soffocano in sé il sentimento materno.
Ma anche: donne libere, che non vogliono divenire schiave della maternità, una maternità intesa solo come limite dalla società. Donne che si ribellano alla mentalità benpensante e maschilista.
E poi ancora: donne che subiscono un dramma interiore tutte da sole, perché devono lavorare, o perché devono nascondere una ‘colpa’, o perché non hanno i mezzi per sostenere la maternità, o perché sono depresse o perché hanno un marito insopportabile.
Quindi donne viste come: divoratrici, ribelli, o vittime. Mi domando cosa volesse l’autore, dal tema dell’aborto. Quale simbolo volesse tirare in ballo. o quale metafora.

Forse che La Cucina (il lavoro) sia una madre che divora i suoi figli?
Che tutti lì dentro si sentano come dei figli abbandonati, che cercano continuamente un grembo caldo dove andare a rifugiarsi?  Peter ha di sicuro un rapporto un po’ filiale con  Monique. Ma sia Monique che La Cucina, però,non hanno uno spazio accogliente, dentro al loro grembo: la donna come madre-demone. Ovvero la vita a rovescio.

Oppure: In un mondo dominato dai maschi e dal loro vittimismo violento, non ci può essere nessuna felicità nell’essere madre. Si resta incinta con le persone sbagliate, e nel modo sbagliato, e ci si vuole sbarazzare, insieme col bambino, anche del contatto con il modo maschile  e sociale di trattare l’argomento gravidanza. La Cucina è un luogo molto maschile. L’aborto è una ribellione – comunque perdente – al maschilismo: la donna è un fiore calpestato. Che disperatamente  si ribella.

Oppure: il mondo sociale capitalistico in generale è troppo difficile e troppo spietato. Una giovane madre che deve impegnarsi fino all’esaurimento nel lavoro, non avrà alcun supporto economico o organizzativo dal ‘mondo di fuori ‘. quello di tirar su bambini è un dolce carico che solo le famiglie agiate possono permettersi senza soccombere  alla fatica e ai disagi.
La Cucina, come tutto ciò che appartiene all’ambito del lavoro, osserva con gelida indifferenza le sofferenze di queste donne.  Il luogo di lavoro non è un luogo di incontro né di comprensione reciproca. Offre un ascolto freddo e inutile. La donna è la più afflitta delle vittime della società. E’ un Cristo.

Queste tre percezioni dello stesso tema sono presenti nel lavoro di Wesker.
Monique sembra appartenere un po’ a tutte e tre, ma per Peter è di sicuro la madre- demone. Lei prova, col suo sogno, a farsi vedere da Peter come un Cristo. Ma senza alcun risultato, sembrerebbe. Nonostante il monologo, Peter la vede perfino come puttana.

Winnie ci appare invece come un fiore calpestato, che ha provato (disperatamente) a ribellarsi. Ma all’interno della Cucina, dal gruppo degli amici di Max, viene percepita come una stupida e una viziosa. Questo accanirsi dei commenti contro di lei, nel momento in cui dovrebbe suscitare pietà, la fa avvicinare alla terza percezione, quella della vittima assoluta, di un cristo sofferente e umiliato. ci sono persone, come Max, che hanno un bisogno latente di vedere in ogni donna una puttana.  è un bisogno importante per loro, che li fa sentire culturalmente in una posizione di ironica superiorità. questo bisogno si acuisce , di solito, quando si tratta di uomini che hanno un rapporto perdente, insoddisfatto, con le donne. a partire dalla madre.  E’ una superiorità piena di tristezza, e di risentimento.
La giovane Winnie che tenta l’aborto con una pillola illegale, e rischia di morire, ci fa sentire l’ enorme solitudine che c’è dietro alla sua decisione.
La Cucina, nonostante la gran quantità di persone che la abitano, è un luogo di solitudine, per una donna fiore-calpestato.
Winnie è il simbolo della solitudine delle donne quando si tratta di certi eventi drammatici della vita. E’ importante, credo, che il suo dramma venga commentato da Max, che è a sua volta il simbolo della gretta superficialità  maschilista (è un po’ lo specialista di questo tipo di controcanto  poco prima Max si esprimerà con uguale gretta e ubriaca superficialità nei confronti della pena di morte).
Però noi capiamo che Winnie è sola, mentre Max fa parte della maggioranza delle persone nel mondo. Capiamo che il pensiero stupido e aggressivo è al sicuro, mentre la fragilità della condizione di Winnie è abbandonata a se stessa.
Un’altra associazione che un tema come quello dell’aborto può suscitare, è legata ovviamente alla sessualità.  Le pillole (sia anticoncezionali che abortive) sono entrate nell’uso comune proprio nei primi anni sessanta, e hanno dato il via alla rivoluzione sessuale: le donne potevano fare sesso liberamente, come gli uomini.
Diciamo dunque che ne La Cucina si allude a questa nuova libertà di poter fare sesso senza restare incinta, e si dice che molte cameriere ne hanno approfittato.
In concreto si fa riferimento a due aborti: quello di Monique e quello di Winnie.
Il primo sembra appartenere alla tipologia ‘rivoluzione femminista’:  Monique fa l’amore sia con Peter che con suo marito, e non vuole nessuna gravidanza indesiderata.
Winnie invece sembra che abbia un marito oppressivo e si trovi in una condizione sociale assai disagiata ( nel testo di Wesker si dice addirittura che ha 7 figli ). Il suo aborto, quindi, è un atto di disperazione.

Abbiamo a che fare, direi,  con un azione simbolica.
L’aborto è simbolo di una società che prevede un tipo molto ristretto di libertà , la quale può realizzarsi se si rinuncia ai bambini.  E’ un’idea di società e di libertà destinata a fallire miseramente.  siamo molto lontani da Utopia.

Un aspetto interessante a mio parere è il punto di vista di wesker sulla classe sociale di cui i critici militanti dicevano che fosse il poeta. Al pari di alcuni registi di cinema di quegli anni, per esempio S. Anderson, di “O’Dreamland “, il suo sguardo sui lavoratori ‘oppressi’ è molto disincantato e deluso. La classe operaia è incapace di essere moralmente e culturalmente migliore della classe degli sfruttatori. E’ squallida e inerte, come quell’altra è rapace e maligna. Il monologo di Paul è il manifesto di questo pensiero.
Che è un pensiero pessimistico.
L’umanità sta male perché ogni società è incapace di fare il bene.  Punto e basta.