Questo spettacolo nasce da molto lontano. La prima volta che mi venne in mente di interpretarlo ero ancora al liceo. Desideravo ardentemente recitare il ruolo del Principe torturato a morte dal padre-Re. Non credo sia difficile immaginare qualche implicazione psicologica. La mia prima riduzione scenica risale ai miei sedici anni e non vide mai la luce, perchè tra i miei compagni di classe fu impossibile trovare qualcuno adatto a fare il padre-Re.

Circa trent’anni dopo Martone mi propone di fare qualcosa che riguardasse in qualche modo l’Unità d’Italia. Mi telefona mentre sto per iniziare una replica di Tartufo. Sono in costume da prete. Ho la faccia sfatta e cupa, fino a poco prima mi ero indotto pensieri di estrema lascivia. Faccio schifo a me stesso, e mi piaccio , in quello schifo. Guardo il mio volto e vedo un vecchio. Mi torna in mente il Filippo : mi sembra un dramma che fa da preludio al Risorgimento. Devo confessare che di quell’opera non ricordavo quasi niente. Solo che era un opera sulla rivoluzione contro i vecchi tiranni (perché così, da ragazzo romantico, la interpretavo, sbagliandomi) . Quel che vedo nello specchio mi dice che sono pronto a fare un vecchio, e che il mio ruolo è ormai diventato quello del padre tiranno. Dico – senza riflettere, e un po’ mentendo – che ho in mente uno spettacolo su Alfieri. A distanza di trentanni il vecchio padre assassino viene , in modo misterioso, diretto sulla scena dal figlio assassinato. Era arrivato – come accade a tutti gli attori – il giorno in cui ci si sente pronti a rinunciare ad offrire la propria giovinezza, e ci si esalta nel pensare alla propria vecchiezza imminente. E si vuole offrire quella. Si aprono dei varchi nuovi nella fantasia . Si sente che è in arrivo una forza ‘pura’, che ha a che fare sia con la natura che con la ‘maschera’. Filippo è il mio primo incontro con la ‘maschera’.

E’ ovvio che del Risorgimento mi importava ben poco, in quel momento. Scrissi delle note di regia di botto, la sera stessa, prima ancora di aver riletto il testo. Il risultato è qualcosa di sconclusionato che tiene insieme fin troppe cose, in modo delirante. Lì per lì mi parvero troppo deliranti, e non le inviai al Teatro. Adesso che è passato molto tempo ,le rileggo e trovo che sì, sono sempre sconclusionate, ma forse non così deliranti.

Lo spettacolo ebbe un buon successo nelle tre piazze in cui fu rappresentato (Torino Asti e Bolzano). Qualcuno si indispettì per il piglio ‘contemporaneo’ dei personaggi, qualcun altro si irritò del balletto finale sulle note di Woman No Cry, ma la stragrande maggioranza degli spettatori e dei critici era entusiasta. Tuttavia gran parte dei direttori di teatri non si fidava né di me che facevo ‘un classico’ , né di Alfieri. Dicevano che io ero troppo ‘contemporaneo’, e che Alfieri spaventava il povero pubblico per via del suo linguaggio astruso. Ovviamente erano delle idiozie. Da quel giorno decisi che avrei fatto sempre ‘ i classici’. Se non altro per insidiare il monopolio dei registi noiosi, e degli attori tromboni.

La compagnia fece un grande lavoro sulla dizione dei versi, scoprendo poi che Alfieri scriveva direttamente per la recitazione. Non era un letterato, ma un grande teatrante. Bastava seguire la metrica e la punteggiatura, e si recitava da sè. Indagammo dei luoghi oscuri molto violenti, ossessivi, dolorosi e privati. Filippo è uno dei miei grandi incontri. Così come nella fase ‘giovane’ della mia vita ho per molto tempo continuato a recitare Amleto – anche facendo cose ben diverse – in questa fase matura continuo a indagare Filippo, che è rimasto dentro di me.