INTERVENTO DI VALERIO BINASCO

Non so se il titolo di questo convegno corrisponde al vero, e cioè che il teatro di regia è in declino, ma se così fosse, devo dire che sono abbastanza contento. Per quel che mi riguarda, era durato anche troppo.
Ora, finalmente, oltre alle regie ,si potranno fare tante altre cose dentro a uno spettacolo: si potrà fare poesia, leggerezza, improvvisazione, gioco,incoerenza, verità, narrazione, musica, rumore , psicologia, maschere ecc.., anche tutte queste cose contemporaneamente, senza che nessuno si offenda.
A patto che ci sia rimasto qualcuno a cui tutto questo interessi.

Credo di dovermi spiegare.

Chiamo teatro di regia un tipo particolare di spettacolo dove il regista dice agli attori come vanno dette le battute, come vanno messe le mani, cosa vuol dire in assoluto il testo che stanno recitando, e decide tutto a priori su basi critiche, letterarie culturali: quali comportamenti, quali colori, quali suoni, quali spazi corrispondano all’umanità cui sta cercando di dare testimonianza sul palcoscenico. Il teatro di regia, quando corrisponde a questa descrizione, non è altro che critica in movimento. Non ho niente contro la critica, ma penso che debba star ferma. Che debba parlare nel pensiero, e debba usare parole intime e riflessione, non allegorie umane.

Il teatro di regia – per come lo intendo io, detestandolo – è espressione ossessiva di un’idea su qualcosa, su una parte del tutto, che oscura (o abbaglia) tutto il resto che si trova a passare da quelle parti. Questa ossessione alla fine inibisce qualsiasi vitalità, e stende come una coltre rigida su tutto quel che si muove con una certa libertà in un teatro : dalle frange di un abito di scena, al pubblico. Questa sensazione di rigor mortis si attenua quando le idee ossessive del regista sono particolarmente sorprendenti, e belle. Il teatro di regia fa spettacolo con le idee. Bastano loro. Nel corso del tempo ha selezionato un pubblico con vocazione alla critica, abbastanza infastidito – paradossalmente- da qualsiasi accadimento scenico che non sia ‘al passato’ cioè già accaduto: accaduto nelle idee del regista qualche mese prima. Il pubblico ha a disposizione solo la rigida simulazione di un ideale di qualcosa che – va detto – è spesso elaborato in modo che appaia molto bello secondo i criteri del bello teatrale. Nella ricerca della bella idea si esaurisce in parte la febbre creativa del teatro di regia.

Ho deciso di fare un intervento il più possibile chiaro e (almeno per me) liberatorio, quindi preciso subito adesso che so benissimo che molti registi del teatro di regia hanno fatto e fanno capolavori ed erano e sono quasi tutti dei geni. Molti di loro li amo, tanto che per troppo amore li sfuggo (come fantasmi di Amleto) parlo di Bergman, di Carmelo Bene, della Mnuckine, di Brook, Nekrosius, Castellucci, Marthaler, Baush.

Detto questo, ritorno a dire che l’epoca della critica in movimento è durata anche troppo, ed è responsabile – pur non colpevole – di un progressivo abbassamento della vitalità del pubblico. Mi dispiace dire questo, e spero di sbagliarmi, perché in fondo il teatro di regia è nato proprio per dare un nuovo impulso all’attenzione del pubblico. Non è il vero colpevole, perchè a dare la botta fatale al pubblico ci si son messe la televisione massimalista e la politica dei fessi al potere, insediatisi alla guida – diretta o indiretta – dei teatri. Ma alla fine il danno è immenso. Spero non irreversibile. Ma visti i tempi, mi pare che tutto diventi subito irreversibile.

Il teatro di regia è molto antico, ma quando l’ho conosciuto io veniva dagli anni settanta. Gli artisti italiani hanno fatto un percorso straordinario e strano: a ritroso nel tempo come personaggi di favola, hanno cominciato da ‘adulti’ nel primo dopoguerra, e hanno finito col ritornare ragazzi negli anni settanta. E, con loro, il pubblico. Sono diventati ragazzi insieme, il pubblico e il teatro degli anni settanta. Erano amici scavezzacolli, vagabondi e senza paura.

Gli artisti teatrali hanno sempre condiviso tutto col pubblico: la serietà meravigliosa e pura del dopoguerra, la pensosa voglia di rivoluzione degli anni sessanta, e poi la poesia della provocazione negli anni settanta. Quest’ultimo era un periodo in cui c’era un tacito accordo tra la platea e il palcoscenico, e si sapeva che si stava tutti lì (nei palchetti o nelle caverne) perché si stava sempre e comunque dalla parte del cambiamento, del rinnovamento del mondo , della rivoluzione culturale, e quindi artistica. Era un mondo fatto di idee. Non credo che ci sia stato nel nostro paese un momento più bello di quello per essere registi, critici e spettatori-critici.

Se c’è qualcuno tra voi che era in scena in quel tempo sappia che io lo invidio e lo onoro. Ma è evidente che nell’epoca delle rivoluzioni culturali contano più le idee che le cose. Il teatro per molto tempo è diventato un luogo per esporre idee. So che ora dico qualcosa di antipatico, e di fortemente contestabile, ma secondo me da quel momento in poi, per onorare le idee dei registi il teatro ha sacrificato l’unico grande capitale che possedeva: gli attori. E’ vero che questo succedeva e succede ancora con il teatro capocomicale, dove per onorare l’arte di un attore solo si fa fare la figura dei fessi a tutti gli altri. Era ed è una decadenza grave anche quella. Ma proprio qui si può smascherare una parentela imbarazzante tra il vecchio teatro capocomicale e quello ‘nuovo’ dei registi, divenuti in breve tempo dei capocomici di tipo nuovo: assenti dalla scena, presenti solo in spirito.

Anche la preparazione degli attori da quel tempo in poi è stata lasciata da parte: a che serve uno bravo, se deve solo ‘rappresentare idee’? E’ a poco a poco invalso l’uso del 6 politico anche a teatro.

Il mio pensiero è che se si sottovaluta l’arte dell’attore, si finisce prima o poi per sottovalutare il pubblico.

E quindi il senso stesso del teatro.

Adesso vi dico perché penso una cosa come questa.

Si dice spesso che il teatro sia un’arte in qualche modo ‘secondaria’ rispetto ad altre arti e in qualche modo parassitaria. Per esempio la drammaturgia sembra meno nobile della poesia, la scenografia lo è meno dell’architettura o della pittura, la gestualità degli attori deve molto alla danza, ma è meno della danza, così come la recitazione pare assai MENO importante della musica , ecc.. Tutte cose col ‘meno’ davanti, e tutte cose in sé vere.

Qual è dunque lo specifico del teatro? che arte è?

È l’Arte dell’Attimo Presente.

In questo il teatro è unico. Accade, o non accade. L’attore è colui che deve essere messo in condizione di farlo accadere.

La gente non lo sa, crede di andare a teatro per rilassarsi, o per riflettere, o per ridere un po’, ma in realtà la gente va a teatro per far pace con il Presente. Parlo proprio del Presente come attimo, non come ‘contemporaneità’.

La dilatazione dell’attimo presente è il mestiere di chi fa accadere le cose su un palcoscenico.

Gli attori non lo sanno con precisione, ma lo sanno abbastanza da saperlo fare.

Lavorano con quel mistero che sta dentro di loro, e che condividono col pubblico solo se vengono messi in condizione di lasciare fluire quel mistero dentro di sé : il mistero dell’esser lì, al presente. Di quel mistero dovrebbe occuparsi un regista, oggi, e lasciar perdere tutto il resto. A questo serve la nostra arte del teatro: a creare le condizioni perché il Presente si materializzi dinnanzi a una folla di persone. Di questa folla fanno parte anche le persone che si trovano in palcoscenico. Anche e soprattutto gli attori devono essere investiti dal Presente. Creare le condizioni perché questo accada, è il mestiere del regista. L’arte teatrale in sé e per sé non esiste, così come in sé e per sé non esiste una fiamma: esistono solo determinate circostanze che fanno sì che la fiamma si ‘manifesti’.

Troppe volte il regista si è messo lui al posto della fiamma. Ha creato un contesto spento. E ha spento la creatività degli attori.

Ecco: il regista si è messo troppe volte di traverso. Ha ostacolato in tutti i modi possibili l’accadimento, a favore del ‘già accaduto’, cioè del già pensato, già visto, già sentito nella sua fantasia.

Quasi tutti gli spettacoli ‘di regia’ soffrono di coma, o morte. Sono vive solo le idee che li hanno generati.

Per me questo è impensabile. L’attore è l’unico medium dell’attimo presente, e il regista è lì per aiutarlo a incontrare se stesso come medium, a insegnargli tutte le cose che a quell’attore possono servire per fare ciò che vuole fare senza neppure volerlo troppo. Il regista è a sua volta un medium che mette in contatto l’attore con il suo se stesso libero e profondo.

È un lavoro intimo, difficile e affascinante. Completamente imprevedibile.

Ci fu il teatro degli attori, poi venne quello dei registi, ora c’è quello problematico.

Il primo era tutt’uno con la società cui si rivolgeva, e ribadiva ogni sera che Jago era cattivo e Desdemona era buona; il secondo ha scandalizzato un po’ dicendo che Jago è buono e Desdemona cattiva; e ora c’è il teatro problematico che non sa assolutamente niente di buoni o di cattivi, di Desdemone e di Jaghi.

Il regista e l’attore si aggirano in quel bosco bruciato che è oggi la tradizione teatrale, in cerca di qualcuno cui raccontare sempre la stessa storia, che nessuno ricorda più, loro stessi prima di tutti.

A ben vedere, è un paesaggio meraviglioso. Si può vederci dentro di tutto, si può ricostruire tutto.

Ecco, ricostruire. Ai registi io dico: ricostruiamo un rapporto col pubblico. Tutto il pubblico. Dalla Signora Grassa di Salinger, al critico preferito. Non dimentichiamoci le zie e i bottegai. Occupiamoci della gioia della nostra arte, e scendiamo dal piedistallo culturale. La cultura è una parola infida, che sembra trovarsi a suo agio solo se la si mette vicina alla parola assessorato, o ministero. Dentro al cavallo di Troia della cultura, la politica ha distrutto i teatri, perché si è frapposta tra il palcoscenico e il pubblico. Quasi tutti quelli che contano qualcosa oggi nel teatro nazionale sono lì per motivi politici, non per meriti artistici . Sanno fare molto bene i politici e molto male gli artisti. Al pubblico offrono politica travestita, offrono scambi –sempre al ribasso- e nessuna idea viva o anche solo mezza morta. Del pubblico se ne sbattono. Se ne sono sbattuti per tanto tempo. È andata così. Amen. Non dico che dobbiamo far loro del male. Ma ora alla nostra generazione tocca la ricostruzione. E’ un dovere. Il privilegio del teatro di regia è che si è svolto in un tempo in cui c’era un grande capitale di pubblico, di curiosità, di fermento culturale. Quel capitale si è dissolto, ora.

Noi registi italiani di oggi siamo dei nullatenenti.

È una condizione eccitante, anche.

Certi giorni sono davvero felice che mi sia capitato in sorte un periodo come questo, e mi compiaccio di tirarmi su le maniche tra le macerie, e mi metto al lavoro per riconciliare il mio Tempo con l’arte del teatro.

Altri giorni sono così sconsolato che scrivo poesie come questa, la prima e l’ultima che io abbia mai scritto dai tempi delle medie. Non giudicatela solo per quanto è disperatamente brutta. Eccola qui. Si intitola Farewell.

FAREWELL

Stiamo fingendo
che in questo paese
esista ancora il Teatro.
È finita. Non quasi finita. Finita finita.
A nessuno importa più.
Bisogna che qualcuno
lo dica finalmente
una volta per tutte
chiaramente.
Stiamo fingendo
che sia ancora possibile
ma non c’è più
nessuna possibilità.
Come sia stato possibile
che tutto davvero finisse
non chiedetelo a me
non chiedetelo a chi
come me
è rimasto vivo
chiuso dentro
nel corpo morto del Teatro;
chiedetelo agli altri
ai Tutti
gli altritutti cui
definitivamente
e irreversibilmente
non importa più.
Da oggi anche la pietosa

finzione che esista
può cessare.
Lo annuncio io:
È finita.
Oggi persino Dio è triste
per la fine del suo gioco prediletto:
il gioco d’un uomo che gioca
a fare l’Uomo.
Come Otello anche Dio dice
addio, addio, addio..
E una lacrima divina
discende
oggi per l’unica ed ultima volta
al ricordo dei tanti occhi d’uomo
che nel Teatro
si sono accesi e ora spenti.
A nessuno importa più
– dice Dio –
del mio Beckett
del mio Ibsen
del mio Strinberg
del mio Testori
del mio Euripide
del mio Cechov
del mio Pasolini.
Addio, addio…
Tra poco
me ne scorderò anch’io
– dice Dio –
Mi sono scordato di tante cose
negli anni
e anche questa sarà una di quelle,
mio povero Shakespeare
mio povero perduto per sempre
figlio prediletto.
Come è possibile che
sia successo non so
– dico io –
Ma è successo mentre io
ero ancora vivo.
Sono ancora vivo.
Ancora vivo.
Vivo.
Qua dentro.
Per niente.

Aggiungo per amore di ottimismo una malinconica allegria di Montale, tanto per tirare un po’ su:

Ho tanta fede che mi brucia;
certo chi mi vedrà dirà:
è un uomo di cenere
senz’accorgersi ch’era una rinascita.

Ciao.

Valerio Binasco