Questo documento dai toni fin troppo agit- prop, lo scrissi nel clima di quella magnifica esaltazione che ci attraversò durante i primi mesi dalla nascita della Popular, perché mi pareva che la PSK stentasse a trovare un consenso ‘culturale’. Aveva un grande successo di pubblico, e cominciavamo a fare delle tournèe molto belle, ma era come se i direttori artistici dei principali teatri, e gli operatori culturali in genere non sapessero bene come classificarci. Per rompere l’imbarazzo tentai io stesso di definire il nostro lavoro e inviai questa lettera ad alcuni direttori di teatro che si dimostravano diffidenti verso di noi, al fine di sollecitare la loro curiosità e di dar loro una ‘botta’ di energia benevola nei nostri confronti.
Il risultato è stato molto interessante. Non ha risposto nessuno.
Questo documento dai toni fon troppo agit-prop lo riscriverei uguale anche oggi.

Perché è proprio così che siamo.

Proviamo a dire chi siamo con parole semplici.

Siamo una compagnia di attori. La parte fondamentale del nostro lavoro è quella che riguarda gli attori. Lo studio e la cura della recitazione assorbono quasi tutto il tempo delle prove. E delle repliche. Assorbono quasi tutto il budget di produzione degli spettacoli.   La cura dell’ensemble, e la messa a fuoco delle potenzialità dei nostri attori, costituiscono l’attrattiva principale, nonché il ‘senso’ , dei nostri spettacoli.

Non è una ricerca fine a se stessa. Non ci interessa la cultura della ricerca. Siamo lontani da ogni concettualismo.

Quando diciamo che siamo ‘Popular’, vogliamo dire – semplicemente – che il pubblico che viene a vedere i nostri spettacoli deve ridere, deve piangere, deve capire quel che vede e ascolta. Non deve perder tempo a sentirsi inferiore culturalmente. Deve gioire di essere in un teatro. La nostra idea ‘popular’ di teatro è gioco, e festa.

Festa di che cosa? Festa dei sentimenti umani. Belli, e brutti. Il nostro è un teatro giocoso, talvolta comico, e spesso sentimentale.   Il concettualismo severo dei decenni passati si sarebbe trovato a disagio davanti ad un’affermazione come questa. Noi , no.

Il teatro è la Festa delle Storie, che l’umanità nel corso dei secoli, ha raccontato su se stessa. I nostri spettacoli raccontano storie. Non ci occupiamo di filosofia teatrale, ci occupiamo di narrare una storia. Facciamo l’impossibile perché essa arrivi al pubblico con chiarezza, con forza, con immediatezza.

Siamo nati negli anni della fine del teatro. Una brutta fine per mancanza di fondi, per mancanza di politiche culturali, per mancanza di coraggio, per mancanza di curiosità , per mancanza di generosità. Quando diciamo che il teatro è finito, diciamo che si è distaccato dalla gente. Caduta libera. Perché allontanarsi dalla gente, per il teatro, equivale ad andare incontro al disastro.

Chi non si rimbocca le maniche per salvare qualcosa, è responsabile del disastro in modo diretto. Bene: Noi stiamo cercando di salvare qualcosa. La PSK nasce per fare un teatro che si rivolga direttamente alla gente. Che recuperi il senso profondo del nostro mestiere, che è quello di svolgersi davanti a un pubblico numeroso e contento. È un lavoro che richiede tempo. Quello che potete vedere ora della Popular, è l’inizio del suo percorso.

Abbiamo il sogno di un Paese che ritrovi speranza anche grazie al suo Teatro. Questo sogno è il nostro progetto.

La nostra Kompany, per poter lavorare in quest’epoca senza denari destinati allo spettacolo, si ispira a quello che negli Anni Sessanta si chiamava con orgoglio ideologico ‘ teatro povero’.   Noi rinunciamo volentieri a tutto quell’orgoglio, ma siamo Teatro Povero fino in fondo. Produrre i nostri spettacoli non costa quasi niente, perché, essendo una kompany che indirizza gran parte delle sue energie verso il lavoro degli attori, le altre voci di spesa spesso imponenti sono ridotte quasi a zero. Questo fa parte dell’estetica del teatro ‘povero’, certo. Ma qui voglio fare un distinguo col passato: Siamo nuovi. Usiamo il ‘poverismo’ in modo nuovo : cioè in modo semplice , popolare, colorato e divertente. Non afflittivo. Non ideologico. Il severo concettualismo dello spazio vuoto, dell’oggetto trouvè, o del costume minimal, è qualcosa che non ci interessa come espressione di un’ estetica. Non abbiamo tempo per iscriverci a qualche movimento culturale. Adesso c’è un’emergenza vera. E’ come se in una città bombardata noi   stessimo lì a cercare tra i detriti il nostro cappello preferito, anziché delle persone, delle coperte, dei viveri.

Noi abbiamo fatto del teatro classico un fatto popolare.

Abbiamo ogni giorno la dimostrazione che si possono avere dei buoni risultati artistici e grandi presenze in platea, spendendo pochissimi soldi pubblici, e lavorando con umiltà e intensità.

Lo so che suona strano che io parli di umiltà, ora che ho sfoderato così tante parole per dire quanto ci sentiamo orgogliosi di quel che facciamo. Ma il nostro approccio al lavoro è molto umile, siamo ben consci della scarsità di mezzi che ci contraddistingue, e la sensazione di essere degli outsider a volte ci eccita, a volta ci deprime. Ma la maggior parte delle volte, a dire il vero, ci da forza.

In fondo, stiamo solo tentando di tener vivo il teatro. Abbiamo scelto di fare i grandi testi della tradizione (Shakespeare e Goldoni, per esempio), perché l’antico teatro è ancora il teatro della Festa, della Favola, e per questo è ancora amatissimo dal pubblico. I classici sono carichi di una energia inesauribile, e non sono mai tristi, anche quando sono tragici. Noi vogliamo fare un teatro senza tristezza. Senza colpa. Senza punizione. Vorremmo fare così anche la nostra vita, ma la vita è più complessa del teatro, e non ci sono autori né registi a dirci come potremmo fare.

Noi stiamo tentando di non chiudere per sempre il sipario. E per far questo stiamo cercando di non ascoltare tutti quei concittadini che sono in cuor loro ben felici della Crisi Economica, perché finalmente possono dire dal mattino alla sera la loro frase preferita : ‘Non Si Può!’

Noi siamo un laboratorio di recitazione. Cerchiamo di fare fino in fondo tutto quel di cui siamo capaci. Le cose di cui non siamo capaci sono ancora moltissime. Ci stiamo lavorando. Cerchiamo di ridurre il numero. Stiamo cercando il modo di fare una scuola per attori. Di essere noi i primi scolari di questa scuola. Di essere noi stessi questa scuola.

Una Compagnia è un punto di arrivo e insieme di partenza. Ed è un fatto culturale di enorme importanza. Non fatevi l’idea che siamo un gruppo di amici che fa il teatro come fosse una scampagnata. Siamo una compagnia che lavora con durezza, spietatezza, e con un livello di concentrazione altissimo. Noi siamo uno dei pochi tentativi di affermare in Italia la cultura del Teatro di Ensemble. Colui che sta scrivendo queste note è un regista che crea i propri spettacoli a partire da ciò che può valorizzare al meglio il lavoro dell’Ensemble. Questo tipo di lavoro è raro in Italia. Ha poca storia. Il nostro paese ha una storia importante solo di teatro capocomicale, o registico.

La Popular Shakespeare Kompany ha un progetto artistico ambizioso: quello di fare un teatro d’arte, che però sia anche semplice e divertente, e che sia accogliente e generoso verso gli spettatori, e che non sprechi denaro pubblico. I risultati conseguiti fino ad ora ci dicono che siamo sulla strada giusta. Dicono che siamo tra le realtà più innovative tra quelle che sono nate recentemente nel nostro Paese. Strano a dirsi, siamo ‘innovativi’ anche se non inventiamo niente. Siamo una forza del passato. Siamo come il gesto dell’arciere, che per scagliare in avanti la sua freccia, deve imprimerle forza tendendo l’arco all’indietro.

Una cosa però abbiamo tentato di inventarla: un modo per tenere viva la gioia creativa in questa epoca di tenebra. Anche se non facciamo niente di speciale. Facciamo solo teatro. Contro tutto. Per tutti.

vb